Gentile è un termine poco usato nel lessico attuale, molto più lo si ritrova in autori del trecento, i poeti del Dolce Stil Novo, dove
la nobiltà d'animo era una dote spirituale, non trasmettibile con i cromosomi, non ereditaria, ma era grazia che irrompeva nel cor.
Questa grazia che per osmosi lambiva il pensiero e l'esistenza veniva da loro trasmessa come dono alle gens. Se si va all'etimologia
della parola "gentile" si scopre che non significa altro che: "ciò che appartiene alla gens, alla stirpe". Tutti siamo "gente",
tutti quei fratelli a cui Papa Francesco ha dedicato la sua ultima enciclica. Per i poeti del Dolce Stil Novo la gentilezza, la nobiltà
d'animo era strumento necessario ed imprescindibile per arrivare alla conoscenza di sè stessi. Il cor gentile per Dante, per
Guido Cavalcanti e Guido Guinizzelli diviene manifesto, la capacità d'amore è strettamente legata, è proporzionale alla nobiltà che
l'amore possiede. Categorie, credo perse in molti, forse perché messe al margine, perché oltrepassate in nome di una ricerca di felicità
che dimora e trova radici in qualcosa di meno effimero ma più tangibile, più misurabile come il successo, il predominio, l'arroganza,
il parlare senza conoscenza che rende però autorevoli grazie alla ricchezza, alla forbitezza del linguaggio (spesso fredda eleganza),
al possedere senza cor.
Guido Guinizzelli scriveva: "La natura non ha creato il cuore gentile prima dell'amore, né l'amore prima del cuore gentile, così come
non ha creato il sole prima della luminosità o la luminosità prima del sole". Il mistero dell'uomo. Però sappiamo che ciò esiste,
che beviamo giornalmente la luminosità ed il sole, che dovremmo essere luce anche quando il sole non illumina. Sappiamo che l'amore permette
il vivere, che l'universale, come Papa Francesco ci ribadisce nella sua enciclica è ciò che salva perché : "non è possibile essere locali in
maniera sana senza una sincera e cordiale apertura all'universale, senza lasciarci interpellare da ciò che succede altrove, senza lasciarci
arricchire da altre culture e senza solidarizzare con i drammi degli altri popoli… perché ogni cultura sana è per natura aperta ed
accogliente, così che una cultura senza valori universali non è una vera cultura". Sì perché, noi, noi tutti abitanti ed ospiti della
terra, della vita, siamo la gens. Siamo quei gentili che devono "nobilitarsi" e poi mobilitarsi nell'essere ben disposti, in quel
essere presenti senza condizionamenti, essere benevoli. Mi piacerebbe, ancor di più, dire essere ariosi, cioè simmetrici verso la luce e
l'aria.
Luce ed aria permettono il respiro. Permettono la continuità (questo lungo periodo di pandemia ha tolto a molti la luce e a tanti il respiro,
non potremo più dimenticare questo grande attacco che ci ha fatto misurare il tempo e la qualità di vita), permettono di esserci. E in tutto
il nostro continuo, incessante esistere (prima di noi e dopo di noi) incamminarci da ospiti che cercano grazia, la grazia del cor
gentile che non conosce tinte chiassose, ma che matura tra i riflessi del bene di un'alba e del calore di un tramonto, che sa riposare
nelle ore notturne e risvegliarsi nella sacralità che ogni giorno porta con sé, che sa conquistare il sorriso e conoscere la pena del pianto
e riconoscere la vita. "Io ti riconosco, vita cara, come l'unica cosa pensabile in mezzo a tutto ciò che non si può pensare".
(Pär Lagerkvist) Riconoscerla come tesi ed antitesi di una unità superiore a cui guardare con gentilezza.