Editoriale - Dicembre 2022
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Dio ci ha visitato

Affrontiamo il tempo di Avvento in vista del Natale. Non può essere un tempo da lasciar scorrere, comunque vada, nella normalità. Perché il tempo liturgico – che non dovrebbe essere rinchiuso nelle sole celebrazioni ufficiali – è l'indice puntato verso l'essenziale, il necessario, lo spazio e tempo in cui il nostro quotidiano attinge alla grazia di una novità, di una svolta.
Un primo elemento è certo l'Attesa. Essa è costitutiva del nostro essere, viviamo in attesa. Ogni momento è votato a qualcosa, alla realizzazione, fino al compimento. Rischiamo sovente di attraversare i giorni perdendo questo slancio, colpiti dalla pesantezza, dalla disgrazia, laddove dovremmo essere predisposti a raccogliere ogni occasione di grazia. Con una immagine di Madeleine Delbrêl, che immagina ciascuno come un musicista, viviamo il pericolo di rimanere sempre al tempo degli esercizi preparatori, spesso sgraziati, non riuscendo a eseguire il pezzo della vita che ci è offerto, a "distendere sul nostro angolo di mondo, in mezzo al lavoro alla fretta e alla fatica, l'agio dell'eternità". In questo senso, l'Avvento ci invita a perfezionare il nostro stile, a eseguire i preliminari di quella sinfonia che ci dovrebbe rappresentare, a imparare a discernere accordi, melodie e trilli che ci conducono alla cadenza finale. Avvento traduce originariamente Parusia. L'Avvento è celebrazione della venuta finale di Cristo nella Gloria, ma che si offre a partire dalla sua venuta nella Carne della storia. Il tempo della chiesa non è che questa attesa che conduce al duplice mistero che racchiude. Dovremmo imparare l'attesa, questo cantus firmus che regge ogni personale e singolare variazione esistenziale. Ancora con uno schizzo musicale D. Bonhoeffer dal carcere nazista scriveva. "Dove il cantus firmus risuona chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore; si sentirà sempre sostenuto [...]. Quando si è dentro a questa polifonia, la vita è totale e si sa che niente di funesto può accadere fino a che il canto fermo viene tenuto".
Un secondo elemento sul quale appoggiare il tempo che viviamo è la Visita: l'oggetto dell'attesa. Non attendiamo nel vuoto, nel nulla. Viviamo un'attesa suscitata dalla promessa. La vita promette. È profezia non solo giorni anonimi. Credo che l'umanità non avrebbe retto, non avrebbe cercato – con tutti i limiti e fragilità – di costruire istituzioni rette, un diritto giusto, forme di vita, se non nella consapevolezza di una visitazione. L'oggetto del desiderio è già in cammino verso di noi, già ci abita nell'attesa che lo anticipa. Molti sono i nomi che ha assunto. Luca apre il suo Vangelo facendo dell'attesa e della visita la trama degli eventi. Ci sono annunci (a Zaccaria e Elisabetta, a Maria), ci sono visite (a Elisabetta), nascite (Giovanni Battista, Gesù), riconoscimenti della grazia sperimentata (Magnificat, Benedictus), fino al sigillo del tempo compiuto (Simeone, la profetessa Anna). Queste le parole di Simeone:
29 "Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
30 perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
31 preparata da te davanti a tutti i popoli:
32 luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele" (Lc 2,29-32).
Non le si prenda come scontato esito di una fiction a lieto fine. Troppi ostacoli si oppongono all'attesa (il simbolo ricorrente della sterilità delle donne bibliche). Ma Dio opera altrimenti (Elisabetta: "Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini"; Maria: "non conosco uomo"). Occorre leggere quelle pagine con lo stupore che prese il padre e la madre di Gesù (2,33) quasi che non ci fosse stata "annunciazione", quasi che non fosse chiaro che "egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione" (v. 35). Cioè, che quella nascita conduce la storia a fare i conti con sè stessa. Non sempre siamo in grado di comprendere i segni di svolta che ogni tanto ci consegna. Eppure, ci capita di sentirli (come quel sobbalzo di Giovanni nel ventre di Elisabetta, 1,44). L'Avvento è l'occasione per questo discernimento. Sappiamo imparare? Sappiamo decifrare le parole di chi – come Anna – "parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (v. 38)?
C'è un clima di lode, gioia, stupore, che le cronache dovrebbero far risuonare. Sono solo persone marginali ad averne sentore, il più delle volte, in un misto di pervasiva rassegnazione; come i pastori:
Essi furono presi da grande timore,10 ma l'angelo disse loro: "Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11 oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia" (Lc 2,10-12).
Un segno minimo, impossibile a credere. Un Corpo, una carne. Come è possibile che la Gloria e la Potenza divina siano nel corpo, in sè stesso fragile e contingente, mortale? La tentazione è di vedere la vita mondana di Gesù come una semplice stazione del ritorno al Padre, una parentesi necessaria tra Gloria e Gloria; svuoterebbe il senso dell'attesa della visita. Gioia e stupore del Vangelo stanno, invece, proprio, in quel factum est caro (si è fatto carne), nel caro salutis cardo (cardine della salvezza è la carne). L'incomprensibile evento del divino eterno fatto tempo e storia non ci deve distrarre dalla comprensione di quanto avvenuto in lui: "ciò che è avvenuto in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini" ci dice Giovanni (Gv 1,4).
La forte sottolineatura della concretezza affettiva e d'azione di Gesù, la sua potenza esibita in parole e opere, del resto è relativa, non assicura nessuna adesione di fede: chi cerca segni, anche quando li trova, non crede. Tanto più noi, che viviamo il tempo della testimonianza della Scrittura, non siamo garantiti. L'evento di salvezza rischia di passarci accanto.
Nel condurci al Natale l'Avvento può dunque invitarci ad assumere la sfida dell'ambiguità del corpo di Gesù che, come il nostro, sente i bisogni, si affatica, si emoziona, si adira, progetta, opera, visita, abita, sente il pericolo, la vicinanza e la lontananza degli amici, l'angoscia, la sconfitta, la speranza. Allora, per celebrare il Natale non basta fare festa per il nascere di Gesù, quanto avviarsi con impegno alla comprensione di come da quel corpo, in quella (sarx, carne viva), Gesù stesso abbia accolto la potenza di vita ( pneuma, spirito vitale) che lo rende pienamente Figlio: un corpo vivo perché di carne viva, densa di spirito. L'attesa incontra in lui la visita di un corpo al quale possiamo renderci simili.

Fabrizio Filiberti


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