Editoriale - Marzo 2020
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L'onnipotenza umana vive il declino

Roma A.D. 1656. Tempo di bubboni rivelatisi peste.

"Il 29 giugno la festa dei patroni Pietro e Paolo non si è celebrata. Niente cavalcata della chinea, niente girandola nè spari di Castello, niente cappella papale. Sotto la finestra del mio studio ormai sfilavano gli sbirri che scacciavano i passanti con un bastone: ricoperti di tela cerata, precedevano i carri con le bare che scendevano alla riva del fiume. Nel giro di una settimana, il Tevere si popolò di barche addette al trasporto dei cadaveri. Le chiamavano le barche brutte. E' iniziata così – sull'acqua, in silenzio – la strana danza macabra che avremmo potuto chiamare il Trionfo della bruttezza… . Tante malattie potevano colpirci e ci avevano colpito, i nostri cari erano morti di febbre, di tifo, di canchero, di gotta, di apoplessia, ma la peste era diversa – suscitava un orrore ancestrale. Non esisteva infatti una cura. La peste era invisibile fino al momento in cui si manifestava, e allora era già tardi… . La peste cambiava tutto. I suoni, le abitudini, gli odori, il paesaggio… . Roma si svuotava."
(da L'Architettrice, Melania G. Mazzucco)

Roma A.D. 2020. Tempo di coronavirus.

Trenta mezzi militari incolonnati nel cuore di una notte tiepida di marzo, un lento avanzare, un corteo funebre anomalo, notturno, solitario, schermato, solo le luci rosse dei fanali di coda, un corteo di abbandoni in mezzo al più mero abbandono di morti solitarie. Corpi capsulati in bare uniformate trasportate verso luoghi lontani. Vite spezzate, stroncate da respiri fatti tronchi o che han ceduto a respiratori meccanici. Fragilità del vivere. Un lillipuziano virus, piacevole agli occhi di un microscopio con quella sua coroncina di fiori rossi (rosso vermiglio sangue, il colore della vita) ha fatto sparire la fame nel mondo, gli spauracchi e gli odi degli sbarchi, la Siria martoriata, i bambini mutilati dalle mine, gli attentati terroristici e dulcis in fundo i femminicidi. Tutto questo perché – come ha scritto su Repubblica Ilvo Diamanti – "la realtà viene riassunta dall'unico evento che oggi conti. Il coronavirus. Che ci scorre davanti agli occhi. Sugli schermi e online. E sui giornali … da soli, invasi dal mondo che incombe e ci invade attraverso i media: il tempo si dissolve". Una potenza pazzesca ha questo invisibile mostriciattolo infettivo, un magnetismo sulle menti e sui corpi. Sta tramontando il tempo dell'individualismo che ha sbandierato araldi di libertà più di ogni altro valore? Quella libertà compensativa di ogni chimera, di quei desideri tenuti per secoli celati da moralismi – forse eccessivi – divenuti sfrenati, una libertà senza etica? Il tempo del coronavirus sta rallentando e bloccando il delirio dell'onnipotenza umana? Domande a cui ognuno di noi dovrebbe scandagliare nel proprio intimo cercando delle risposte, magari avendo nelle pupille lo scenario di quei camion ermetici portatori di bare. Naufragi. Questo ora siamo. Il lillipuziano ha chiuso scuole e luoghi di cultura, ha incenerito la movida, sfregiato abbracci e baci, murato anziani e bambini, tolto il sapore delle passeggiate al risveglio della natura, sotterrato progetti, escluso i volontari, danneggiato quell'ordinario sociale che ci faceva sentire onnipotenti, spargitori di lamentele e aggressivi. Come un'onda improvvisa, carica di flutti oceanici o di fango alluvionale si è fatto onore e ha creato vuoti incolmabili, vuoti di cui dovremmo chiedere perdono. L'invisibile ha serrato le porte dei templi, chiuso le imposte alla casa di Dio – di qualunque Dio -, ci ha lasciati tramortiti dinanzi a quelle porte chiuse divenute un tutt'uno con i muri; non c’è possibilità di nessun cunicolo, di nessuno spiraglio per poter riposare tra le pareti rassicuranti di una chiesa tra ceri ed incensi. Tutto questo sarebbe ancora perdonabile, ma non può esserlo la mancanza della presenza. Fino a ieri ci siamo beati sotto la tenda della misericordia, le abbiamo dedicato anche un anno giubilare, quanti di noi si sono sentiti sicuri sotto al motto: la carità copre una moltitudine di peccati. E così ci siamo sentiti come il giusto del Sl 5: "Perché Tu o Signore benedirai il giusto, come scudo lo circonderai con il tuo favore". Ma è arrivato, lui, il microbo dai fiori rossi e la misericordia ha dovuto cedere il passo, e quelle bare che sfilano portandosi via coloro che amiamo diventano il simbolo dell'impotenza della presenza. Ma non sono solo feretri, dentro alla loro pancia ci sono uomini e donne morti tra volti anonimi mascherati da grandi occhiali e visiere, toccati da guanti impermeabili, nessuno di quanti li hanno amati ha potuto posare lo sguardo quando ancora possedevano il respiro di vita, l'aria necessaria perché gli alveoli polmonari si espandessero. Morti soli. Sui loro volti nessun sacerdote ha lasciato una goccia di quell'olio che la Maddalena recava con sé: il profumo prezioso per il suo Signore; nessuno ha potuto raccogliere nel palmo della mano le lacrime di un addio imprevisto tanto dolente quanto quello di Maria sotto alla croce. Di questo dovremo chiedere perdono. Per non aver potuto dare pietà, per non esserci stati in una notte senza tempo.
"Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspirava una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale … ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta, ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio, né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva … . un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però di insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! – disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete. – Così dicendo aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così … . La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restare sempre insieme. Prega intanto per noi".
(da Promessi Sposi, cap. XXXIV, Alessandro Manzoni)
La nostra onnipotenza, sta qua, nelle parole della madre di Cecilia, nel saper vestire di un abito bianco, nel coprire con un velo, ma soprattutto, per quanto ci è concesso di essere "cura" con gesti e parole che ognuno di noi conosce per poter essere "sacerdoti" di consolazione. In attesa che semi nuovi fioriscano nei campi arati, perchè nulla vada perduto.
Milena Simonotti


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