Editoriale - Maggio 2018
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Ricordo di mons. Aldo del Monte (1915 – 2005)

Era una domenica di gennaio con la neve ai lati della strada a mandare riflessi di luce arcobaleno.

Affacciati alla finestra del suo studio, quando il silenzio e la nubilosa chiarità dei tre laghi nell’ora del Vespro sprigionavano segni di ineludibile mistero, lo ascoltavo, immergendomi nel suo sguardo volto al giardino, che si oscurava, ad indicarmi la sua “cattedrale”, un ex capanno degli attrezzi divenuto la sua Cappella nelle lunghe giornate primaverili ed estive per celebrare l’eucarestia insieme al Creato.

Alberi addormentati, i “suoi cedri del Libano”, il maestoso faggio che invecchiava con lui, già assaggiatore di cielo, un album gonfio di foto, parole, ritagli di giornale, erano i protagonisti delle sue parole in quell’alcova protettiva per un servo di Dio attento servitore dell’uomo, cappellano militare in Russia, sacerdote che ha vissuto momenti di “convalescenza spirituale” come lui stesso definiva il suo peregrinare da un monastero benedettino all’altro, e poi vescovo per la sua gente.

Un incontro indelebile nella mia memoria, fautore di altri incontri, dove mi arricchii della grazia di un uomo che senza pudore, ne vergogna, tesseva come un ragno ambizioso la tela che aveva dato sostegno ai suoi giorni, una tela fatta di carità e speranza, ma che ha anche conosciuto la lotta contro emozionalità, dubbi, cammini incerti per riuscire a mantenersi forte nella fede come i rami aggrovigliati del faggio che dominava il suo giardino. Una tensione di santità: “Mi sento anch’io in lotta per Cristo per vivere la stessa fede… sono solamente in tensione verso la vittoria. Sono in drammatica tensione… sono ancora in cammino”.

Questo brevissimo ricordo mi porta a far partecipe chiunque leggerà questo scritto, di un suo libro: "La croce sui girasoli" (ed. Interlinea, 2015), diario della campagna di Russia dove c’era: “un campo di girasoli, poi un’altura sempre battuta dal vento; ecco appena a valle, il cimitero”. Un diario che racconta, il suono della campana al campo per la messa, l’irrequietezza di un giovane prete, il gelo della neve dove i sopravvissuti si chiamavano per nome e dove su molti di quei settantacinquemila morti ora “veglia una croce gigantesca levata sui girasoli”.

Quella sera d’inverno, chiudendo il cancello alle mie spalle, pensai solo che la mano di mons. Aldo del Monte, dopo essersi posata sulle spalle e sul viso di tanti ragazzi violentati dalla guerra, si era posata anche su di me, lieve come la neve sul selciato e forte come il grande faggio, che senza rumore svettava verso un cielo dal dolore sottile.

Milena Simonotti



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